Un pezzo di Mediterraneo, anzi di Ionio, dove bisogna arrivare sapendo già il percorso. Fuori dalle rotte turistiche, sebbene il porto di Katacolo dove attraccano le navi da crociera disti pochi chilometri e la strada per arrivarci tutto sommato comoda, l’idea di dove ci si trovi si percepisce dai nomi degli alberghi – decadenti per la verità, almeno all’apparenza – ma solo fuori del sito. Qualche bancarella e quindi l’ingresso. Da una parte il museo, che merita un capitolo a sé stante, e dall’altra l’area archeologica. La palestra, i templi, e un silenzio solenne che rende il necessario rispetto a un luogo millenario. Qualche turista al tramonto, buona accessibilità anche per i disabili. Immenso il tempio di Zeus, la cui immagine di imponenza è rimasta intatta e
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del quale resta una colonna dorica gigantesca e purtroppo non visitabile dall’interno. Quindi il sancta sanctorum dello sport, che ha risvegliato nel barone De Coubertin la voglia di celebrare il mito dello sport secondo il modello antico.
Un arco dà il benvenuto per l’ingresso allo stadio Olimpico per eccellenza, quasi come la salita dal tunnel che porta dagli spogliatoi al campo. Una distesa di terra di 200 metri di lunghezza per una trentina di larghezza. All’apparenza, un campo di periferia. Serve un pizzico di immaginazione, focalizzando l’attenzione sugli elementi antichi come il marmo della partenza a terra e quel che resta della tribuna autorità, per calarsi nella mentalità di 2.500 anni fa: essere qui significava essere “qualcuno”, un privilegiato, la parte buona della società di allora. Da ogni parte del Mediterraneo arrivano per gareggiare, come raccontano le leggende quasi mitologiche degli atleti della Magna Grecia, quel Sud Italia intriso di ellenismo. Si sale la collina, la cui erba è sì tagliata di fresco sebbene il sole picchi e tenda a bruciarla, per arrivare al filo rosso che conduce ai giorni nostri: la piana di fronte al tempio di Hera. È qui che con uno specchio si accende il braciere olimpico, la cui fiamma arriva nella città dei Giochi dopo aver attraversato il mondo (ad oggi) conosciuto.
Dalla fine dell’Ottocento la riproposizione del rito e del mito: le vestali del Tempio a cui spetta il compito di dare vita alla sacra fiamma. Oggi a favore di telecamera, e non potrebbe essere altrimenti; allora, per cercare il favore degli dei, della moglie del Sommo nel caso in caso in questione. E avere la loro benedizione poteva cambiare le sorti non solo di un atleta ma magari di una città intera.
Nello stesso complesso, la struttura che ospita il museo con i reperti recuperati dall’area archeologica. Elmi, frontoni, oggetti di uso quotidiano come zappe, picconi o spille che sono riposti in teche al fresco e protetti dall’usura del tempo. Il complesso di statue Zeus e Apollo a fronteggiarsi e la statua della calma olimpica, a cui si fa spesso riferimento, invocandola come una divinità che appare assai raramente. A circondare le statue, le dodici fatiche di Ercole, eroe alquanto famoso da queste parti e tanti busti di imperatori romani, che hanno dominato la Grecia una volta romanizzata. Infine l’emblema più fascinoso: la statua di Nike al centro del centro del museo. La Vittoria campeggia a sorvegliare su tutto il complesso nella sua veste più magica, forse più ancora di quella che vive nel palmo della mano di Atena, sul Partenone della Capitale ellenica. Per fortuna, almeno stavolta, non c’è baffo e nemmeno un paio di scarpe a simboleggiarla.
Pubblicato venerdì, 14 Settembre 2018 @ 18:03:16 © RIPRODUZIONE RISERVATA