Ladispoli, la Corrado Melone in visita a Regina Coeli • Terzo Binario News

000_0023“Drento Regina Coeli c’è ‘no scalino. Chi non salisce quello nun è romano, nun è romano e manco trasteverino”. Così cantava Gabriella Ferri e, se il detto è veritiero, ora noi della 2M della “Corrado Melone” siamo tutti romani.

Infatti, ormai al termine di questo anno scolastico, alcune classi sono state invitate a partecipare ad una giornata didattica molto particolare ed interessante, ma solo i nostri genitori hanno acconsentito e così, prendendo i mezzi pubblici ed accompagnati dalle nostre professoresse, il preside e una mamma, ci siamo recati a Roma per visitare il carcere di “Regina Coeli”.

Un’esperienza forte? No! L’ho trovata molto interessante e formativa. È giusto alla nostra età conoscere quella che è stata ed è tutt’ora la nostra società, anche partendo da un luogo come è il carcere, tanto più che Voltaire diceva: “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”.

Così, come “piccoli cittadini curiosi” di apprendere e conoscere, siamo giunti a destinazione a via della Lungara ed abbiamo salito lo scalino entrando nella casa circondariale di Roma, nel cuore dello stabile ove si intravedevano degli enormi cancelli che si snodano in “bracci”.

Ad accoglierci è stata la vice comandante che ha dato ordini per far effettuare un attento controllo dei documenti e prelevarci tutti i nostri cellulari, poi è giunta la direttrice, la Dott.ssa Anna Angeletti, ed infine siamo stati raggiunti dalla bibliotecaria e la psichiatra.

La prima sensazione che ho provato è stata di “soffocamento”. Sulle pareti c’erano vari quadri di cui due grandi che rappresentavano la Madonna e Gesù in croce con la sua faccia sofferente e rassegnata, credo come quella dei detenuti in attesa di giudizio o di espiazione pena. Entrati nella sala conferenze, è iniziata la riunione che ci ha visto interagire con i nostri ospiti che hanno risposto a tutte le nostre domande. Abbiamo così iniziato con loro il nostro “cammino virtuale” all’interno del carcere partendo dalla storia di Regina Coeli.

La dott.ssa Anna Angeletti ha spiegato che le carceri non sono tutte uguali: il “Regina Coeli” ospita persone appena arrestate o in, a volte lunga, “attesa di giudizio”, cioè di coloro che ancora non sono stati giudicati colpevoli. Ne esistono di altri tipi, ad esempio i super-carceri duri o come quello di Civitavecchia, che abbiamo visitato lo scorso anno, per i detenuti a fine pena che si muovono liberamente e stanno per essere liberati dopo anni di detenzione.

La direttrice ha definito il Regina Coeli un “Pronto Soccorso” per le persone che vengono arrestate. Ma questo carcere ospita anche quelle che sono ancora in attesa di giudizio, di una condanna o meno. Se ritenuti innocenti, verranno risarciti.

Il discorso è iniziato con il significato di pena. Grazie ad un italiano, Cesare Beccaria, ed al suo capolavoro (scritto in francese) “Dei delitti e delle pene”, che influenzò immediatamente il mondo intero, il concetto di pena è cambiato radicalmente. Per Beccaria, e per noi oggi, ogni pena non deve essere una violenza contro un cittadino, ma deve essere una reazione pubblica, certa, veloce, proporzionata ai delitti e dettata dalle leggi che ha come scopo la difesa della sicurezza di tutti i cittadini. Ciò che previene i reati non è la crudeltà della pena, ma la sua certezza e la sua coerente applicazione. Per Beccaria lo Stato non può compiere un delitto per punirne un altro, ecco perché è assurda la pena di morte. Ci ha fatto molto riflettere la citazione della errata percezione della religione, della confessione e della redenzione che, tra gli strati più bassi della popolazione, faceva sì che i più miseri non temevano la pena di morte, se avevano la possibilità di risultare utili alla loro famiglia grazie al reato. È esattamente quello che accade oggi alle menti bacate di chi si fa esplodere per uccidere innocenti: “presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l’orrore di quell’ultima tragedia”. Grazie a queste riflessioni, per la prima volta, proprio in Italia (nel Granducato di Toscana), fu abolita la pena di morte. Per quanto riguarda la tortura, basti riportare la frase “Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti”. Per Beccaria, la pena deve essere proporzionata ed avere funzione rieducativa, in altre parole deve fungere da deterrente, garantire la sicurezza sociale: “il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali”. Ecco quindi che non ha senso gettare in una nera cella un condannato, ma deve essere mostrata la sua perdita della libertà di vivere nella società ed essere rieducato affinché non commetta più i reati che abbia commesso.

La struttura del carcere risale al 1654, prima era un antico convento dedicato alla Regina del Cielo. Confiscato dal Regno d’Italia, nel 1881 fu ristrutturato per l’uso carcerario con la pianta dell’edificio a forma di stella in modo che dal centro bastasse una sola persona per controllare tutti i detenuti. In quel periodo fu anche aggiunto un edificio per avere un carcere femminile, noto a Roma come “Mantellate”.

Inizialmente era prevista la segregazione cellulare, cioè per 10 anni il condannato veniva segregato impedendogli di parlare con chiunque eccetto il cappellano e il direttore. Questo portava tutti ad impazzire, senza avere alcun risultato positivo per la società, che non guadagna nulla dalla vendetta, ma solo dalla rieducazione. Oggi non è più così. La nostra attenzione è stata attirata dalla proiezione di un video su “Regina Coeli”, sulla vita del carcere in passato. La dimensione ristretta delle celle, l’assenza dei servizi igienici, lo scarso spazio per l’ora d’aria e l’alta densità dei detenuti ci ha fatto partecipi di una realtà crudele ed inadeguata per un essere umano. Per quanto possa avere sbagliato il reo deve essere sempre considerato una persona. Oggi la capienza massima prevista è di 750 detenuti, ma spesso questo numero viene superato e per tale motivo l’Italia è stata sanzionata dalla Comunità Europea. Per risolvere questo problema, per gran parte della giornata i detenuti non rimangono in cella, ma possono muoversi sui corridoi aumentando lo spazio disponibile per ciascuno e riportandolo alla norma europea.

A partire da papa Giovanni XXIII, tutti i papi hanno visitato il carcere. I deputati possono vistarlo senza alcun preavviso per verificare la situazione dei detenuti.

Il carcere è molto vicino al Gianicolo, tanto che la balconata del faro è a solo qualche decina di metri dalle celle. Per questo motivo, anche se vietato, ancora oggi i familiari dei detenuti vi si riuniscono per comunicare con loro gridando.

Il 24 marzo 1944, 285 persone di questo carcere vennero prese dai tedeschi, violando e sopprimendo i diritti umani, tutti prelevati dalla III Sezione. Quei detenuti finirono nelle Fosse Ardeatine dove furono massacrati per rappresaglia dieci italiani per ogni tedesco ucciso nell’attentato di via Rasella. In seguito il carcere è stato ristrutturato, ma non la terza sezione e questo perché non si dimentichi un percorso della storia così tragico da non ripetere mai più.

La parola è poi passata a Paola, psichiatra della ASL, che segue i detenuti fin dal loro arrivo in carcere. Li segue per capire innanzi tutto per quale motivo hanno commesso il crimine e per seguirli nella loro salute mentale. Ha raccontato che in molti, al loro arrivo, hanno crisi di pianto e rifiutano di mangiare. È un aiuto offerto al detenuto per cercare di non fargli avere uno scoraggiamento generale, un crollo psicologico che li può portare a commettere azioni violente contro la propria persona, come il suicidio. Anche se diminuiti, ancora oggi accade che qualcuno non ce la faccia e si suicidi. La direttrice ci ha confessato che, oltre al dolore per la morte di una persona, si tratta di una sconfitta per tutti loro perché non hanno saputo comprendere la grave situazione del detenuto.

A colpirmi particolarmente è stato il discorso che hanno affrontato sulle droghe e sull’alcol. Non credevo possibile che fosse così facile caderne vittima. La psichiatra ci ha spiegato che il semplice provare e riceverne piacere è il primo passo per rovinare la nostra vita e avvicinarci ad un mondo fatto di crimini e carcere in cui più del 50% dei detenuti sono tossicodipendenti che hanno commesso reati per procurarsi il denaro per acquistarla. È proprio alla nostra età che è più facile cadere vittime di tentazioni. Bisogna quindi essere forti, razionali e maturi per non farsi coinvolgere dai pessimi comportamenti del gruppo cui si vuole far parte a tutti i costi. Dobbiamo distinguerci per le nostre menti e non omologarci per seguire un “presunto” amico. Un altro dato statistico che ci ha colpiti è che quasi nessun detenuto ha un titolo di studio superiore alla terza media e molti nemmeno la hanno! Sembrerebbe che studiare tenga lontani dalla prigione. Ma il motivo c’è. Sempre parlando di statistiche, in questo luogo gli stranieri sono circa il 70%, spesso persone che non parlano la nostra lingua. Quindi il motivo risiede, come diceva Beccaria, nel fatto che chi non ha nulla, né istruzione, né lavoro, né famiglia, né conoscenza, né rispetto, commette più facilmente reati perché non ha nulla da perdere! Spendere di più per la scuola e per l’accoglienza, ci farebbe svuotare le prigioni del 90% e ridurre a zero i reati ed i pericoli per i cittadini innocenti, portando l’Italia ai livelli del nord Europa. Infatti, il reato non viene commesso per “cattiveria”, ma per bisogno o per ignoranza.

La direttrice ci ha poi letto un brano scritto da un detenuto che raccontava cosa avesse visto e vissuto nel fuggire dal suo paese e terminava affermando di essere felice di poterlo ora raccontare, perché era vivo, anche se dentro “Regina Coeli”.

Alle nostre domande, ci hanno spiegato che i detenuti convivono nella stessa cella con persone di diversa provenienza geografica, differenti stati di salute e penali (dall’assassino al delinquente comune), ma spesso questa condizione stranamente favorisce l’integrazione perché ci si riconosce come persone che in comune hanno qualcosa: la povertà.

È venuto poi il momento di dare la parola ad un ufficiale delle guardie carcerarie, il corpo che garantisce l’ordine pubblico e la tutela della sicurezza all’interno del carcere, che partecipa alle attività di osservazione dei detenuti, che accompagna i detenuti da istituto ad istituto o presso le aule giudiziarie per lo svolgimento dei processi o presso luoghi di cura in caso di ricovero. Egli ci ha spiegato che in Italia i detenuti non hanno una divisa particolare, ma sono vestiti normalmente. Se questi hanno una famiglia che li aiuta, possono cambiarsi i vestiti, ma se (come accade per gli stranieri) sono stati arrestati per la strada e nessuno può aiutarli, restano con la sola maglietta che avevano al momento dell’arresto per sempre o fino a che qualche volontario o qualche guardia non dona loro qualche vestito per cambiarsi. I detenuti vengono contati e ricontati parecchie volte in un giorno; le loro giornate, scandite da orari precisi, passano tra passeggiate e attività come teatro o pittura o la frequenza della scuola. Ci ha poi raccontato di quando sventò un tentativo di evasione, quando un uomo tentò di calarsi dal muro, ma che precipitò e si ruppe una gamba. Ci ha anche raccontato di quella volta quando evasero due detenuti limando le sbarre e si sono calati giù con una fune fatta di coperte e di una ruota di un carrello; saltando da acrobati per la strada e raggiungendo una auto in attesa. Una volta usciti le telecamere li hanno ripresi mentre salivano su quella macchina, che fecero partire senza fretta, fermandosi anche al semaforo. Dopo tre mesi sono stati ricatturati.

Al termine della conferenza, che ci ha visto partecipi con domande e curiosità, la nostra visita in questa particolare realtà si è conclusa. L’esperienza ci ha mostrato un altro aspetto della realtà della vita e quanti ostacoli possono esserci all’improvviso, quanto sia importante essere liberi, perché la libertà non ha prezzo. Ma anche quanto conti l’ambiente in cui si ha la fortuna o la sfortuna di vivere… L’esperienza di oggi sicuramente mi ha fatto capire come sia importante credere in quei valori che ultimamente stiamo perdendo di vista perché attirati da beni materiali. Noi dobbiamo “essere” e non “avere”.

Questa conferenza è stata molto interessante e mi ha insegnato molte cose che non conoscevo, per esempio io immaginavo un carcere più grigio, cupo, invece oggi ho scoperto che è come una grande struttura con molte regole e tanti divieti; i detenuti possono fare attività e laboratori. Mi ha dato tanto da riflettere il fatto che ci siano tante persone in attesa di giudizio e che quindi potrebbero stare lì persino due o tre anni, anche senza una colpa. Questo mi dispiace molto, mi lascia preoccupato; prima non ci avevo pensato e vedevo il carcere come il luogo dove si scontava una pena certa. Spero di poter ripetere esperienze simili così istruttive e costruttive.

Mi chiedo come possa sentirsi una persona che si trova a vivere un periodo in carcere, (magari essendo pure innocente) sopportando situazioni di convivenza forzata con persone con le quali non hai nulla in comune e senza la possibilità di prendere aria se non per qualche ora al giorno. Credo sia una situazione disumana.

Quando sono uscita, fuori c’era il sole ed era piacevole scaldarsi e pensare quanto la libertà vada difesa, coccolata, amata come una compagna imprevedibile e coraggiosa.

Se l’opinione pubblica non manifesta sensibilità e interesse a questi problemi sociali, forse è perché è incapace o vuole nascondersi facendo finta che il problema non gli appartenga.

Facendo tesoro di quanto ascoltato e visto nel corso di questa visita che mi ha consentito di venire a conoscenza di un mondo che immaginavo soltanto, mi sono convinta di quanto sia importante informare chi ha la fortuna di non vivere queste problematiche. Ma anche di quanto conti l’ambiente in cui si nasca e si cresca… nel percorso e nella vita di una persona.

Solo sensibilizzando l’opinione pubblica, forse col tempo, si potrà fare prevenzione e sperare di migliorare le condizioni di vita umilianti per chi le vive.

Un grande ringraziamento voglio fare ai nostri professori e al preside, alla direttrice del carcere, Dott.ssa Anna Angeletti, alla dott.ssa Paola, per averci concesso oggi di vivere questa straordinaria esperienza che rimarrà indelebile dentro di me.

Pubblicato domenica, 5 Giugno 2016 @ 09:12:52     © RIPRODUZIONE RISERVATA