Non esistono guerre che si possano definire “civili” . E civile non lo era nemmeno quella combattuta nell’80 a.C. da Mario e Silla. Quando un contesto sociale, che si vuole definire civile, si trova in uno scontro per ragioni ideologiche o di posizione, vuol dire che ha rinunciato a ciò che rappresenta la base della civiltà: il confronto. Al suo posto subentra lo scontro e assume toni cruenti. Il percorso é segnato: 1) si comincia con l’indifferenza, sperando che nessuno dia importanza alle questioni sollevate, magari manifestando un qualche fastidio e comunque liquidando l’interlocutore come inadeguato al confronto. 2) se il primo passo non funziona si prosegue alzando i toni della conversazione e anche Il più semplice confronto diviene il presagio di uno scontro. Così si ottiene di non doversi confrontare sui temi sollevati (é la tecnica utilizzata dai partiti che nelle loro schiere hanno degli inquisiti). 3) se é necessario e le tecniche precedenti non hanno funzionato, si passa alla fase degli attacchi personali. Non si tratta più il tema che ha determinato il confronto, ma le qualità personali, le storie passate, i sospetti o i fini reconditi (come succede per il caso Davigo). 4) se non si é ancora ottenuto il silenzio si passa alla terza fase, quella dell’isolamento. É la tecnica antica dell’ostracismo che consiste nella attribuzione di “patenti pubbliche” per le quali vi saranno persone che vengono “democraticamente emarginate” (un clamoroso esempio é quello del C.d. “Arco costituzionale” per l’esclusione dal dialogo di alcune forze politiche legate al fascismo). 5) se il tentativo di emarginazione non funziona si passa alla contestazione in nome del “quieto vivere”. L’interlocutore “diverso” si rappresenta come un pericolo, anzi una minaccia che con i suoi argomenti potrebbe minare l’equilibrio sociale (é il caso di alcune iniziative di chi si oppone che vengono presentate come pericolose pur di non trattarle). 6) una volta passate tutte le fasi precedenti si é pronti per lo scontro aperto, dove, come in guerra, ogni scorrettezza viene giustificata. Il confronto ha ormai assunto la connotazione di una guerra di contrapposizione, ogni argomento viene contrastato e si vede solo un modo per risolvere la questione: l’eliminazione dell’avversario.
L’eliminazione non deve essere necessariamente “fisica”. É sufficiente un meccanismo elettorale che ne impedisca l’azione. Altrimenti la tecnica del “taglio dei viveri” con la limitazione di ogni possibilità di sostentamento o di attività (come per la stampa libera). In casi estremi si arriva alla reclusione di chi si contrappone o persino alla eliminazione definitiva.
Sembra uno scenario tipico di storie antiche e di civiltà del passato. É invece lo spaccato attuale di dinamiche sociali in cui viviamo, sommersi nello scontro di tutti contro tutti. Dove tutti rivendicano il diritto di parlare senza freni e limiti etici. Dove ciascuno si sente portatore della propria verità. Dove, anche il più stupido degli argomenti, diviene oggetto di uno scontro. Dove la somma di tutti noi, non fa un sistema sociale, ma un popolo di solitari. Dove i prepotenti e gli spregiudicati trovano schiere di servitori sottomessi che rinunciano a ogni diritto pur di sentirsi gregari, utili a qualcuno, e lanciarsi nello scontro.
Tutto questo fa comodo a chi esercita il potere e vuole rafforzare la propria posizione per “difenderci dai pericoli sociali”. Invece, il pericolo é proprio chi é attaccato al potere fino al punto da intenderlo come una questione personale. E incoraggia lo scontro verso chi ne mette in discussione metodi e fini. Spetta a ciascuno di noi decidere se tuffarci nella mischia della rissa popolare o prendere le distanze, in modo “civile”. Perché di “civile” c’é solo il confronto, non lo scontro o la guerra.