La scrittrice e giornalista friulana vanta molti importanti riconoscimenti, tra cui il Premio Manzoni, il Premio Merano e il Premio Flaiano
Oggi presentiamo la seconda finalista del premio “Femminile, Plurale”, Cristina Battocletti.
Cristina Battocletti, originaria di Cividale del Friuli, è scrittrice, giornalista per la “Domenica” del “Sole 24 Ore” e critica cinematografica.
Ha scritto a quattro mani con Boris Pahor la biografia Figlio di nessuno (2012), premio Manzoni come miglior romanzo storico.
Nel 2015 ha pubblicato il romanzo La mantella del diavolo, che ha vinto il premio Latisana per il Nord-Est ed è stato finalista ai premi Bergamo, Rapallo e Asti.
Presso La nave di Teseo sono usciti nel 2017 Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, vincitore dei premi Comisso e Martoglio, e nel 2021 Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste. Vive a Milano, ha due figlie, Olga e Nora.
La sua opera, Epigenetica, parla di Maria, una ragazza che, dopo aver sofferto durante l’infanzia l’abbandono del padre e il progressivo declino psico-fisico della madre, pur lasciata a sé stessa e divisa pure dagli amati fratelli, arriva ad affermarsi come scrittrice. Il successo, però, non porta né compenso né redenzione. Maria, infatti, proprio come la madre, si allontana dalla famiglia, inseguendo forsennatamente le proprie ossessioni e scivolando sempre più nel disgusto della vita. Solo il ritrovamento del figlio, ormai adulto, le offrirà un’occasione di salvezza, portandola ad affrontare una volta per tutte i demoni del passato. Potente e graffiante scandaglio di un destino familiare, Epigenetica ci trascina nella profondità di una donna che attraversa i meccanismi dell’abbandono fino a una coraggiosa riscoperta di sé. La voce della protagonista, Maria, costruisce un racconto primordiale e modernissimo, severo e tenero fino allo struggimento, accumulando tenebre e tuttavia lasciando possibilità all’irrompere della luce.
Di seguito in passo del libro, letto lo scorso otto agosto dalla Dottoressa Karyn Minerva.
𝑬𝒑𝒊𝒈𝒆𝒏𝒆𝒕𝒊𝒄𝒂, 𝑪𝒓𝒊𝒔𝒕𝒊𝒏𝒂 𝑩𝒂𝒕𝒕𝒐𝒄𝒍𝒆𝒕𝒕𝒊, 𝑳𝒂 𝒏𝒂𝒗𝒆 𝒅𝒊 𝑻𝒆𝒔𝒆𝒐
Grado, marzo 1979
Se mio padre avesse rivolto il suo fucile da caccia contro di noi sarebbe stato meglio. Papà non sapeva che uccidendoci avrebbe arginato l’infelicità dell’infelicità: quella della mamma, dei miei fratelli e di tutti coloro che sarebbero discesi dal nostro ceppo infestato.
Non posso immaginare quanto dolore, quanto spavento siano arrivati a mia madre e mio padre attraverso mio nonno e mia nonna, e ancora prima dagli avi dei miei avi e su su, per darmi quello spartito disallineato che mi ha fatto diventare l’essere che sono. Devono aver usato carta scadente, su cui sono riusciti a tracciare solo righe sovrapposte.
Mi chiedo chi siano stati gli ultimi nella linea ascendente a farsi una risata, perché a me è arrivata soprattutto sofferenza, oltre ai capelli scomposti e agli occhi neri di pece. Chi ha terrorizzato i miei progenitori? I barbari che non riuscivano ad attraversare la laguna? Le spie dell’impero austroungarico? O son stati i tedeschi che hanno avvelenato il futuro dei miei nonni? Ciò che hanno provato è scritto nel mio corpo e nel mio cervello. Se cerco a tentoni nel mio sangue quello che i dottori non possono leggere nelle analisi mediche trovo le paure, la codardia, la speranza morta che hanno sentito quelli prima di me. E io, come se rimanessi imprigionata nel loro scheletro neuronale, sono riuscita a trasmettere solo abbandono, solitudine, rabbia. Non ho avuto la forza di cambiare, e così i miei fratelli.
Se ne era accorto probabilmente papà, che si limitava a osservarci come fossimo piccole calamite di immondizia. A tavola ci lanciava sguardi tra il mal di denti e il disprezzo mentre mangiavamo scoordinati, le posate come pezzi di un meccano ancora da costruire, le nostre parole impastate di cibo. I radi capelli impazzivano in testa alla mamma a ciocche disomogenee, ritte, come l’auspicio di un’elettrificazione che la potesse costringere a scappare. La vedevo in piedi, di schiena, sui fornelli, mentre fingeva di preparare cibo già scotto. C’era sempre il momento esatto in cui papà, prima di mettere in bocca la forchetta, si voltava per non vederci, guardava il muro e io rimanevo ipnotizzata dalla scanalatura posteriore del collo, dove tre lame di pelo scendevano fin sotto la radice delle spalle formando una M enorme, statuaria: la M di Mussolini. L’avevo vista sui muri di un edificio per metà crollato al limitare di Grado, sotto la scritta cubitale RICORDATI DI OSARE SEMPRE.