Cosa posso saperne io del razzismo? • Terzo Binario News

Cosa posso saperne io del razzismo?

Ott 4, 2013 | Valerio Dieni

Giuro, avrei voluto scrivere tante belle parole contro il razzismo. Non ci riesco. Non è pigrizia, eh, non fraintendetemi, la buona volontà c’è tutta. Ho acceso il computer, mi sono piazzato davanti allo schermo, mani sulla tastiera e niente. Zero, vuoto totale. Cosa dovrei scrivere? Insomma, neanche a dire che manchino gli spunti, ultimamente. Eppure sono ancora qui seduto, mentre mi rendo conto di non poter combattere qualcosa che non comprendo.

Provo a spiegarmi. Prendiamo ad esempio un medico, no? Un medico è in grado di curare una malattia che conosce, poiché lui stesso l’ha già combattuta e altri l’hanno combattuta prima di lui. O un meccanico, un meccanico è in grado di riparare il guasto di un motore quando ne conosce la conformazione, le caratteristiche, il funzionamento. E io? Io il razzismo non lo conosco. Cioè, si, lo conosco come termine da vocabolario, lo conosco come piaga nella storia dell’umanità, lo conosco come causa di milioni di morti. La verità, tuttavia, è che non l’ho mai conosciuto dall’interno. È una corruzione dell’anima, un’infezione della coscienza che, ringraziando Dio e – soprattutto – i miei genitori, non mi appartiene. E prego perché non mi appartenga mai e prego perché mai appartenga ai miei figli.

Sono cresciuto in una realtà urbana multietnica e in un contesto familiare che non concepisce il razzismo. Ero bambino e il mio vicino di casa, nonché compagno di giochi e di pomeriggi passati fra Lego e supereroi, era nigeriano. Un ragazzo di colore. Un nero, anzi un negro – dicono che il termine “negro” sia razzista, sto provando a calarmi nella parte. Ecco, per farvi capire quanto possano essere innocenti gli occhi di un bambino, l’unico ricordo distinto, definito, che mi resta del tempo passato con lui è quello di non aver mai, neanche solo per un istante, badato al colore della sua pelle. Non ho mai fatto domande ai miei sul suo paese d’origine – ne conoscevo il nome e la bandiera, non mi serviva altro – o sulle sue abitudini alimentari, sulla sua religione. Era un mio amico, aveva la mia età e un cortile in cui giocare a pallone una volta finiti i cartoni su Italia Uno. Ad un bambino di cinque anni basta questo. Siamo cresciuti, ci siamo persi di vista, ora lui studia e vive in America e spero stia bene. In pratica il mio primo, vero amico, veniva dall’Africa. Cosa posso saperne io del razzismo?

Come posso combatterlo se non capisco quale dannato, malato meccanismo scatti nella mente di chi divide il mondo in bianchi, neri, gialli e rossi? Come posso farlo io, che l’unica divisione per colore che abbia mai fatto è stata quella delle maglie da calcio nel mio armadio? Cosa posso scrivere sul razzismo io, che nelle acque di Lampedusa non vedo galleggiare cadaveri di immigrati, ma cadaveri di esseri umani?

Ecco, forse c’è, una cosa che posso dirvi e credo sia anche l’unica davvero importante: ho imparato, anzi, ho sempre saputo, che un italiano calcia un pallone esattamente come lo fa un nigeriano. Io con i piedi ero più bravo, ma perché a lui piaceva il basket. Non perché la mia pelle fosse diversa.