di Ginevra Amadio
Reduce da sette minuti di applausi alla Mostra del Cinema di Venezia, The Young Pope di Paolo Sorrentino si appresta a far parlare di sé come ogni lavoro del regista Premio Oscar. All’indomani della proiezione in anteprima dei primi due episodi della serie, sono già scesi in campo gli esponenti di quella che Massimiliano Panari chiama su La Stampa Sorrentinologia, un’ermeneutica necessaria per decodificare e penetrare le metafore crepuscolari del cineasta napoletano.
Al di là del lavorio mentale di critici o pseudo esperti dell’ars onirica sorrentiniana, ciò che interessa notare è come The Young Pope abbia tutte le carte in regola per essere il prodotto più riuscito, e al contempo più rivoluzionario, di un Paolo Sorrentino trovatosi per la prima volta a fare i conti col piccolo schermo.
Non che lui lo intenda in maniera così dissimile da quella Settima Arte che gli ha regalato grandi soddisfazioni; «più che una serie tv è un film di 10 ore» ha dichiarato infatti in conferenza stampa, conscio del fatto che un regista può uscire dal cinema, ma non il cinema da un regista.
Le prime due puntate non fanno altro infatti che confermare ciò che di Sorrentino conoscevamo bene, a partire da quello stile visivo dirompente, sempre in bilico tra realtà e finzione, sogno e veglia sospesa. Non si sa molto, ancora, sullo sviluppo della trama. Per mesi le immagini sono filtrate col contagocce, e il rilascio del teaser trailer ha lasciato l’acquolina in bocca a coloro che già un anno fa seguivano con (im)pazienza gli spostamenti per Roma di Sorrentino e il suo cast.
Ora, i 122 minuti iniziali di The Young Pope sono come l’antipasto speciale di un pasto sontuoso; troppo poco per giudicare, ma già abbastanza per assaporare. Non fosse per il rischio di esagerare con le metafore culinarie, si oserebbe inoltre affermare che lo stesso protagonista, il papa giovane che dà il titolo all’opera, è egli stesso un bel “bocconcino” da scoprire pian piano. Pio XII, «irraggiungibile come una rockstar», severo, contraddittorio, è infatti impersonato da uno dei sex symbol più amati degli ultimi anni, quel Jude Law dagli occhi ghiaccio perfetto attributo dell’impenetrabilità del primo Papa americano della storia.
Bello come un angelo, lo si immagina a fatica vestire i panni del severo fustigatore dei costumi della Chiesa. Poi però, quando le luci si spengono e Lenny Belardo (questo il nome prima dell’ascesa al soglio di Pietro) sbuca da una distesa di puttini dormienti, capiamo da subito quanto solo Jude Law, con la sua fredda bellezza impassibile, possa interpretare un Pontefice che rifiuta di sottoporsi alle regole della comunicazione mediatica. Un anti Papa Bergoglio, convinto sostenitore dell’assenza e del mistero come arma migliore per avvicinare le masse.
Nella società dell’immagine la Chiesa stessa fa i conti con la bellezza. Dal conclave dei cinici cardinali esce un Papa giovane e sexy come la comunicazione mediatica impone, solo che le macchinazioni, abilmente condotte per scopi pratici, non rendono il designato automatico burattino da manovrare. Anzi, è lui stesso a condurre i fili dell’azione decidendo di rendere l’assenza la miglior presenza; addio immagini patinate destinate a calendari, santini e porta pillole da souvenir, gli occhi glaciali di Papa Law restano celati nelle stanze del potere.
È una riflessione imponente sulla presenza mediatica della Chiesa, un presa di coscienza interrogativa su quell’onnipresenza pontificia che da Giovanni Paolo II in poi ha finito per rendere il Papa idolo delle folle e brand di se stesso. La forza rivoluzionaria di Sorrentino sta nel veicolare il messaggio della vita appartata attraverso l’immagine di un vescovo di Roma bello e imponentissimo, così diametralmente opposto al pacioccoso presenzialismo di Jorge Mario Bergoglio.
Non si sa ancora come prenderanno in Vaticano le argute rappresentazioni messe in piedi da Sorrentino. Un Papa che si definisce «una contraddizione, come Dio, uno e trino. Come la Madonna, vergine e madre» non piacerà troppo alle alte gerarchie. Il regista tuttavia non sembra preoccuparsene e afferma: «Non so che cosa penseranno in Vaticano, è un problema loro. Se avranno la pazienza di vederlo vedranno che è un lavoro che indaga con onestà – fin dove può perché dura solo dieci ore – le contraddizioni, le difficoltà e le cose affascinanti del clero, preti, suore e un prete diverso dagli altri, che è diventato Papa». Le restanti valutazioni, se ci è concesso dire, lasciamole ai sorrentinologi.